La Fede è una qualità indispensabile nel cammino spirituale: non per restare inetti, ma per ricordare che oltre al nostro sguardo siamo nel grande disegno divino.
di Amrita Elena Cantarutti
Il termine resilienza è di origine moderna, nato nel secolo scorso in ambito scientifico. Da lì sconfinò nella psicologia per indicare quella capacità umana di far fronte alle difficoltà, di superare i traumi. Qualche tempo fa mi è venuto un pensiero, in fondo la resilienza non è che un adattamento moderno di un più concetto più antico: la fede. Mi sembra che la fede implichi poi altre capacità come l’abbandono, l’accettazione, la fiducia, tutte quelle facoltà umane che aiutano a non crollare sotto il peso delle sfide a prima vista insuperabili. Ma la fede, e con lei abbandono e accettazione, non implica necessariamente la passività. Yogananda diceva che se avesse avuto bisogno di lavorare avrebbe scosso il mondo intero fino a quando non avesse trovato lavoro, al tempo stesso, quando fu aggredito da un criminale che voleva ucciderlo, non si mise a combattere con lui, ma si limitò a guardarlo con amore e quello fuggì. Naturalmente il suo sguardo era così potente che non poteva dubitare dell’effetto, era Dio stesso che guardava attraverso di lui. Io sarei una sciocca a tentare una via simile.
Nel Sanaatan Dharma si parla di quattro stati di coscienza. I Shudra: gli inerti, quelli che aspettano senza agire, che non hanno intraprendenza, iniziativa, che fuggono dai doveri. I Vaishya: quelli che hanno capito che per vivere meglio devono rimboccarsi le maniche, che vogliono guadagnare per se stessi, arricchirsi. Gli Kshatriya: quelli che desiderano mettere le loro conoscenze e le loro risorse al servizio degli altri, non possono non aiutare chi ha meno di loro. Infine i Brahmini: coloro che vogliono fare solo la volontà di Dio. Mi viene da pensare che se un Brahmino, colpito da una sfida, decide di mettersi a trafficare con un Vaishya non sta agendo con fede, ma la sua coscienza sembra improvvisamente aver seguito una curva in discesa. Ma se uno Shudra decide di migliorare la sua condizione e si mette in affari con un Vaishya sta seguendo una linea ascendente, in un certo senso ha trovato una scintilla di fede dentro di sé, se non in Dio, almeno nelle proprie possibilità.
Possiamo immaginare Gesù, sul Monte degli Ulivi, che al sopraggiungere di Giuda e delle guardie si mette di punto in bianco a contrattare, promettendo di chiedere a Dio un sacco di soldi per pagarli profumatamente se lo avessero lasciato fuggire? Loro d’un tratto ricchi e lui salvo e libero. Invece pregò: “Padre, se vuoi allontana da me questo calice, tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. Il Vangelo è pieno di atti di fede: la donna malata guarì toccandogli la veste, il centurione sapeva che Gesù avrebbe guarito il suo servo anche senza andare a casa sua, i samaritani giunti al pozzo dove lui si riposava riconobbero in lui il Messia.
La fede non è accettare il crollo del mondo su di noi senza fare nulla, perché tanto Dio verrà a salvarci. Credo che la fede sia quello stato di pace interiore che riusciamo a contattare anche nei momenti di difficoltà, e che ci fa sentire la presenza di un amore sconfinato, che ci avvolge, ci guida, ci protegge, ci rafforza. Combattere per uscire dalle sfide con questo stato di pace interiore ci fa perdere meno energia, ci sostiene invece di stremarci, ci aiuta a restare calmi invece di dibatterci. Non è facile, naturalmente, ma bisogna fare quei piccoli passi, di giorno in giorno, che ci fanno sentire di avvicinarci a Dio, di accoglierlo e di avere fede che Lui è sempre con noi. Per riuscire a fare questi passi bisogna ogni giorno, ogni minuto, ricordarsi di fare uno sforzo per muoversi in quella direzione. Ognuno con le proprie strategie, con le proprie conoscenze, con la propria creatività: cercare di tenere sempre Dio nel cuore, attraverso i momenti di gioia e quelli di tempesta.