Ai piedi del Maestro

Racconto della visita alla casa natale di Yogananda a Calcutta, e di un rinnovato patto di amore e fiducia tra discepolo e Guru

di Giulia Calligaro

Garpar road, 4. Quante volte ho letto questo indirizzo di Calcutta nell’Autobiografia di uno Yogi! E quante volte ho cercato di immaginare come fosse la casa dove Yogananda è nato, è cresciuto e prestissimo ha iniziato a cercare Dio. Quest’anno finalmente sono riuscita a metterla come traguardo del mio pellegrinaggio indiano, durato oltre un mese. Il punto d’arrivo, intuivo, che avrebbe alla fine dato ordine a tutte le altre tappe, e me ne avrebbe dato il significato profondo. Il messaggio da portare a casa.

A Calcutta sono arrivata a sera inoltrata. Mi hanno accolto i lunghi viali, i palazzi, i ponti slanciati di città che si sta attrezzando alla modernità. Una densità di auto e di umanità che stava appena sparecchiando le strade, per riannodarle il mattino successivo con un traffico inestricabile. Dietro mi ero lasciata il verde fitto del Kerala, il suo paesaggio carico di acqua e di cielo che matura meravigliosi frutti e erbe dai poteri curativi; la primavera perenne di Shakti al tempio di Mookambika in Karnataka, il tempo sospeso di Varanasi, dove con un piede sei nel brulicare della vita e con l’altro sei di fronte all’ineluttabilità della morte. Ora il paesaggio era ancora diverso: una vera metropoli indiana, con l’aria spessa che si deposita sul viso, lo straripare di stimoli e suoni, il saliscendi di ricchezza e povertà.

moderno ponte a Calcutta

Il taxi che avevo preso all’aeroporto rallenta la corsa, a lato c’è la Mother’s House, dove madre Teresa ha lasciato la sua opera e dove ancora vive il suo messaggio d’amore: prende una stradina più piccola sul lato e si ferma. Sono stanca, ma finalmente sono arrivata, penso. A questo punto arriva la prima di una catena di piccole sorprese che mi separano ancora dall’agognato traguardo: nei pochi giorni dall’ultima conferma, l’hotel ha cambiato gestione e la prenotazione della camera non c’è. L’amico che è con me non ne vuole sapere, litiga e telefona in hindi per due ore, ma nulla da fare. A notte fonda ci propongono nuove stanze.

Resto calma, la camera nuova non è male. Tiro fuori le poche cose che userò ancora nei giorni che restano. Le appendo, invento una parvenza di casa, cerco di farlo in ogni luogo, soprattutto quando intorno a me tutto si muove continuamente, come in questo viaggio. Estraggo la foto del Maestro, sistemo un piccolo altare. Prendo in mano l’Autobiografia, che avevo riletto durante il soggiorno indiano – come da un po’ ho deciso di fare tutti gli anni -, peso con gli occhi le poche pagine che mi restano da finire, così come poca è ormai la distanza dalla meta: Garpar road 4, ci siamo quasi! E con questo pensiero dormo profondamente le ore rimaste alla notte.

Il giorno dopo, di ritorno dal grande tempio di Kali di Dakshineswar, dove il Maestro ebbe una profonda esperienza di samadhi, decido che voglio finire il libro prima di incontrarlo. Ultimi capitoli: il Maestro sta lasciando l’India, dove era ritornato chiamato telepaticamente dal suo Guru, Sri Yukteswar, che sentiva vicina la fine dei giorni dentro il corpo mortale. Ritorna a Occidente, arriva in America: un nuovo ashram lo attende ad Encinitas, costruito per lui dai suoi discepoli. “Ditemi la verità, Paramhansaji, ne è valsa la pena?”, gli chiede Lloyd Kennel, direttore del centro di San Diego, in riferimento alla sua vita spesa per lo più negli Usa, lontano dalla sua India.

Benedetto è l’uomo che il Signore mette alla prova, dottore! – risponde Yogananda – … Ma la risposta è sì, mille volte sì. Ne è valsa la pena, è stata per me una costante fonte d’Ispirazione, più di quanto avessi mai potuto sognare, vedere l’Occidente e l’Oriente avvicinarsi l’uno all’altro nell’unico legame duraturo, quello spirituale”. Per l’ennesima volta a questo punto mi commuovo. Da lì tutto è iniziato, da questo atto di obbedienza di Yogananda a ciò che era stato previsto per lui dal suo Maestro, dal Maestro del suo Maestro Lahiri Mahasaya e dal grande Babaji, un piccolo rivolo della sorgente era disceso fino a me. E sono lì a Calcutta per questa stessa ragione. Chiudo gli occhi per non far uscire tutta l’emozione.

Quando li riapro capita un’altra cosa inattesa: il mio amico non si sente bene. Ed è molto nervoso, è arrivato fino a questo punto con me, mi ha aiutato molto quando intorno il mondo era straniero per un’occidentale, abbiamo condiviso gioie e anche momenti difficili, ma ora deve partire. Me la caverò benissimo, dico. In realtà per un attimo mi sento stanchissima, rivedo tutte le stanze in cui ho dormito ultimamente, le valigie fatte e rifatte un’infinità di volte, le cose storte che ho cercato di raddrizzare. Cedo al pensiero della mia casa di Milano: avrei voglia di raccogliermi, di non essere più dispersa nelle mappe di una geografia che ora mi pare senza fine. Invece il mattino arriva la macchina, salgo da sola: Garpar road 4, dico. E i pensieri di nuovo si coagulano intorno a quest’àncora.

la casa dove natale di Yogananda

La casa di Yogananda è una costruzione moderna gialla e verde, con pilastri rosso scuro e una griglia di ferro molto leggera che la circonda, anche questa giallina. Oltre il primo cancello, c’è un’altra porta e un’altra ancora. Quest’ultima è chiusa e bisogna suonare. Suono. Dopo un po’ risponde una voce di donna: è Sareeta, la moglie di Somnath Gosh, discendente di uno dei fratelli del Maestro, Sananda Lal Gosh. Sareeta non si ricordava che dovevo andare, e ora sta uscendo, le spiace molto ma devo riprovare. Forse più tardi.

La mia agenda interiore all’improvviso è bianca, non sento di avere più nessun programma. Sto con quello che vuole accadere e mi pare di non riuscire più a chiedere nulla. Come intorpidita, passo intanto alla tappa successiva: la casa di Tulsi Bose, l’amico di Yogananda e la casa in cui dormì quando tornò dall’America. Mi accoglie Tarun, un signore snello, molto gentile che se ne prende cura. Mi porta a vedere il letto dove il Maestro ha dormito, e mi invita a meditare mentre prepara il pranzo: mi dice che posso pranzare con lui. Gliene sono grata, sento di nuovo intorno un muro a cui appoggiarmi. Dietro gli occhi chiusi mi passano ancora tutte le tappe del viaggio, e le sfide superate da quando avevo deciso di partire fino ad arrivare lì. Infine una grande luce.

La casa di Tuldi Bose dove Yogananda soggiornò

Decido di ritornare da Sareeta, mi scuso con Tarun se non lo aiuterò molto a preparare il pranzo, ma sento che ora è il momento giusto. Tarun sorride. Sono di nuovo dietro il cancello della porta della casa del Maestro, poi alla seconda porta, quindi davanti alla porta chiusa: suono. La voce di Sareeta è seguita da una chiave che viene calata dalla balconata affinché io entri. Lei è molto occupata, ma mi porta nello scrigno del Maestro: la soffitta dove lui si ritirava a meditare, dove ha desiderato più di ogni altra cosa trovare Dio. E dove l’ha trovato. A lato la piccola finestra da cui calò i suoi vestiti per la prima fuga verso l’Himalaya.

Ancora chiudo gli occhi: “Apri il tuo cuore, io entrerò e mi prenderò cura della tua vita”. Queste parole che tante volte avevo sentito ad Ananda, durante la cerimonia di purificazione, d’un tratto diventano vive. E poi all’improvviso un pensiero così forte, che non riesco quasi a vedere oltre: è tutto Dio. Non solo le cose belle, nelle prove il disegno divino forse ti ha avvicinato e ti ha indicato la strada che devi fare più che nei momenti facili, in cui le cose seguivano le aspettative. Il disegno è sempre perfetto. E quando hai un vero Maestro, non ci sono cose che piacciono e cose che non piacciono: ci sono le cose che è giusto fare, e su quelle devi tracciare il tuo cammino. Sento dentro tutto questo, molto chiaramente. E sento anche in me un grande Sì: Sì è questo che voglio.

Il viso, ricordo, era coperto di lacrime, il corpo fisico non bastava a contenere lo splendore che voleva espandersi, o forse che stava entrando in me. All’amore non bastava più il contenitore del cuore.

Una piccola pratica per offrirti a un Maestro, o a una realtà più grande

YOGA MUDRA

Siediti in una posizione comoda, a gambe incrociate o, se puoi, nel Loto. Unisci i palmi delle mani dietro la schiena, con le dita rivolte verso l’alto (altrimenti prendi i gomiti). Inspirando allunga ed estendi la spina dorsale, espirando piegati in avanti, partendo dalle anche, in una linea. Nella seconda fase, inspira e allungati ancora, infine espira e rilassati in avanti, appoggiando la fronte a terra (o su un cuscino). In posizione, respira in modo naturale, portando spazio dentro le anche, e dentro il petto, andando oltre alle tensioni e alle chiusure depositate da dolori passati. Sentendo che puoi offrirti completamente, senza paura, senza restare attaccato a nessuna idea di te, con devozione, afferma: «Io sono Tuo, ricevimi».

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