Come coniugare la vita yogica e la frenesia dell’Occidente? Portando nella fretta anche i tempi della pratica? O rendendosi conto che tutto è Uno, come insegna Yogananda?
di Radhika LeAli
L’estate è sempre stata il mio tempo di ricarica. Pausa da tutto. Giornate lunghe. Il vivere spensierato. E anche quando la vita è cambiata e il lavoro ha preso spazio, l’estate si è accorciata ma è rimasta un tempo di ricarica.
Poi la vita è cambiata ancora, e adesso non c’è più differenza, non c’è più alternanza di ritmi, anzi l’estate è incredibilmente più intensa dell’inverno e io sono stanca. Quindi rifletto: ma non volevo vivere una vita semplice, in pace, che mi consentisse di percorrere il mio cammino verso l’evoluzione spirituale?
Allora cosa è tutto questo turbinare di cose? Questo non avere mai tempo, questo vivere sempre rincorrendo qualcosa, questo progressivo crescere di intensità degli impegni…
È questa la vita yogica? O la sua negazione? E proprio mentre navigo nel dubbio, ricevo un articolo dal blog di Jyotish & Devi. Il tema dell’articolo non ha nulla a che vedere con l’argomento intorno al quale mi sto intrecciando io, ma racconta, tra le altre cose, che Paramhansa Yogananda si lamentava di dover tornare a casa sera dopo sera, dopo aver tenuto le sue lezioni, con i capelli ed i vestiti impregnati di fumo. Ed è stato un flash.
Ho sempre immaginato la vita del Maestro sicuramente frenetica, ma sempre e comunque intoccata da qualsiasi contaminazione del mondo terreno. E invece no. Invece lui scendeva negli inferi, si riempiva i polmoni di fumo, svolgeva la sua missione e poi riemergeva, semplicemente scrollandosi di dosso quello che del mondo gli era rimasto attaccato. E infatti l’articolo prosegue raccontando che il Maestro aveva trasformato quella esperienza spiacevole in un’opportunità spirituale, affermando che da quando si era reso conto che la Madre Divina era presente anche nel fumo, questo da allora non gli aveva più dato fastidio.
Ecco, inizio a vedere un filo al quale appigliarmi… e poi mi viene da ridere. Rido perché all’improvviso tutto appare così piccolo. In un attimo penso alla vita del Maestro e anche di Swami Kriyananda, a tutte le sfide che hanno attraversato e a tutto ciò che di grande hanno realizzato. E comprendo che questo è essere uno Yogi: immergersi e risalire, immergersi e risalire, senza mai perdersi, imparando a scoprire che tra le due dimensioni non c’è differenza, che tutto è Uno quando si è profondamente ancorati nella coscienza del Sé.
Quindi respiro, e ringrazio il Maestro per mettere sempre i suoi sassolini sul mio cammino, per quando perdo l’orientamento. E diventa chiaro anche quanto sia importante radicarmi sempre più profondamente nella pratica. Ripenso per un attimo a quando nella mia vita non c’era il sadhana, e la vedo come una barchetta che vagava in balia della corrente. La pratica mi ha dato bussola, albero e vele. Adesso, se le acque si agitano, so che la mia barchetta non perderà la rotta. Farà qualche giro a vuoto, ma la rotta no, non la perderà.