Prima del grande viaggio che cambiò il mondo.
di Shraddha Giulia Calligaro
Nell’insieme di pagine meravigliose e miracolose che compongono Autobiografia di uno Yogi, c’è un passaggio che ad ogni rilettura mi ha sempre commosso.
Siamo nel capitolo 37, Yogananda si sta accingendo a preparare i bagagli per partire per l’America, il disegno divino gli aveva parlato già tante volte attraverso le parole del suo Guru e con segnali e visioni che lo avevano accompagnato lungo tutta la sua vita. Tuttavia, un giorno, poco prima della partenza, arriva il tarlo insidioso del dubbio: non si sarebbe perso nelle spire materialistiche del nuovo continente?
Un Avatar, un’incarnazione divina, che ha già realizzato tutti i passi che conducono al divino e ritorna qui per aiutare noi a compierli, davanti alla propria missione per un istante diventa umano. Come Gesù prima di salire sulla croce che chiede al Padre se gli possa essere allontanato l’amaro calice. Allora Yogananda si mise a pregare, fino a che il suo “cervello non poteva più reggere la pressione dei tormenti”, scrive. Sentiva che gli sarebbe scoppiato se avesse continuato ad implorare. A quel punto Dio, quando neanche un pensiero più deviava da Lui e dalla sua volontà, gli parla nella forma del grande Maestro Babaji: “Non temere, sarai protetto”, gli rispose. Poiché questa è la matematica della spiritualità: quando ti offri completamente, sei completamente supportato. E questo è un grande insegnamento per tutti noi.
Eccolo qui il brano che decise definitivamente la partenza di Yogananda per l’Occidente, e la rivoluzione che iniziò per noi tutti dopo il suo sbarco, il 19 settembre 1920 al Molo di Boston. Se oggi facciamo yoga, se oggi possiamo raccogliere e mettere insieme i semi migliori della saggezza indiana con le qualità occidentali, lo dobbiamo a quel viaggio.
“Un giorno, di primo mattino, iniziai a pregare con la ferrea determinazione di continuare, anche a costo di morire pregando, finché non avessi udito la voce di Dio. Volevo la Sua benedizione e la rassicurazione che non mi sarei perduto nelle nebbie del moderno utilitarismo. Il mio cuore era deciso ad andare in America, ma era ancor più risoluto a ricevere il conforto della divina approvazione.
Pregai e pregai, soffocando i singhiozzi. Non giunse alcuna risposta. La mia silenziosa supplica aumentò d’intensità in un angoscioso crescendo finché, a mezzogiorno, raggiunsi l’apice; il mio cervello non poteva più reggere la pressione dei miei tormenti. Sentivo che mi sarebbe scoppiato se avessi implorato una volta di più, rendendo ancor più profonda la mia passione interiore. In quel momento si udì battere un colpo dall’anticamera adiacente alla stanza di Gurpur Road dove ero seduto. Aprendo la porta, vidi un giovane nella succinta veste dei rinuncianti. Egli entrò, chiuse la porta dietro di sé e, respingendo il mio invito a sedersi, mi indicò con un gesto che desiderava parlarmi rimanendo in piedi.
“Deve essere Babaji”, pensai attonito, visto che l’uomo che mi stava dinanzi aveva i lineamenti di Lahiri Mahasaya, ma con un aspetto più giovane.
Egli rispose al mio pensiero: “Sì, sono Babaji”. Parlava melodiosamente in hindi. “Il nostro Padre Celeste ha ascoltato la tua preghiera. Egli mi ordina di dirti “Segui i suggerimenti del tuo guru e va’ in America. Non temere; sarai protetto”.
Dopo una pausa vibrante, Babaji mi parò di nuovo: “Tu sei colui che ho prescelto per diffondere il messaggio del Kriya Yoga in Occidente. Molto tempo fa incontrai il tuo guru Yukteswar a un Kumbha Mela; gli dissi allora che avrei mandato da lui per ricevere i suoi insegnamenti”.
(da Autobiografia di uno Yogi, Cap. 37, pp. 336 – 337)