Educazione come conoscenza del Sé

C’è un’educazione che pensa al progresso della conoscenza attraverso l’accumulo di nozioni, ma c’è un’altra forma di educazione che ritiene che la verità sia già in noi: e che serva solo farla venire a galla, ovvero ricordare la nostra eternità. In questa seconda c’è il cammino spirituale. 

di Sanjaya David Connolly

Tutti noi, davanti a Dio, siamo solo dei bambini. La vita stessa è una grande scuola e le nostre lezioni in essa non finiranno finché non avremo realizzato chi siamo veramente, come figli dell’Infinito” – Paramhansa Yogananda

Le due diverse radici latine della parola “educazione” probabilmente spiegano i due modi molto diversi in cui questa è stata tradizionalmente considerata. La prima radice è il verbo latino educare (participio passato educato) che significa “addestrare o plasmare”; l’altro è il verbo latino educere (participio passato eductus) che significa “guidare o tirare fuori”.

La pratica dell’educazione che ha prevalso generalmente è stata quella di vederla come l’addestramento o il plasmarsi dell’allievo in conformità con i costumi e le norme prevalenti in materia di istruzione, morale e sociale. Si basa sull’idea che la mente umana alla nascita sia una “tabula rasa”, e che tutto ciò che alla fine conosciamo (e diventiamo) è il risultato di ciò che è registrato su quella tabula. Di conseguenza, l’insegnante (l’educatore) è colui che ha “conoscenza” e che impartisce questa conoscenza agli alunni (così istruiti), che la registrano (o no) sulla lavagna vuota delle loro menti. Pertanto, l’alunno “buono” è colui che memorizza ciò che è stato “insegnato” e si conforma alle norme prevalenti. Al contrario, gli alunni meno propensi all’apprendimento meccanico e con idee più creative o anticonformiste sono spesso visti come “deboli”. Dall’altra parte, concetti e pratiche educative alternative, basati sull’idea di educazione come una guida che tira fuori la conoscenza innata dell’alunno e delle qualità individuali dell’anima, sono sempre state proposte da insegnanti più illuminati.

Nel famoso esperimento con il ragazzo schiavo nel Menone di Platone, Socrate si propone di dimostrare che tutto l’apprendimento è in realtà il ricordo di verità già innate (un’affermazione che Socrate collega all’idea di reincarnazione e all’immortalità dell’anima). Se l’esperimento di geometria con lo schiavo offra effettivamente questa prova o no non è così importante. Più importante è che offra un diverso concetto di educazione e di metodo educativo. Il metodo socratico di porre domande prima provoca costernazione e perplessità nell’allievo, facendogli vedere che ciò che pensava di sapere, basato esclusivamente su credenze o opinioni inculcate (insegnamento tradizionale), non regge a un esame più approfondito (elenchus). Quindi, ponendo ulteriori domande, Socrate guida il ragazzo a un riconoscimento e a una vera comprensione della nozione di geometria. Secondo Socrate, questo dimostra che il ragazzo aveva già questa conoscenza dentro di sé; le domande che gli sono state poste semplicemente “l’hanno risvegliata”, rendendo più facile per lui ricordarla. Sostiene inoltre che, poiché il ragazzo non ha acquisito tale conoscenza in questa vita, deve averla acquisita in un momento precedente; infatti, dice Socrate, deve averla sempre saputa, il che indica che l’anima è immortale. Di conseguenza, Socrate definisce se stesso non come un insegnante, ma come una “levatrice” che “fa partorire” l’allievo della sua conoscenza latente.

L’importanza del ruolo dell’insegnante è stata anche sottolineata da Paramhansa Yogananda, il quale paragona l’insegnante a un giardiniere e la scuola a un giardino in cui ogni pianta bambina viene coltivata individualmente fino a quando non cresce e fiorisce. Dice: “Considero le scuole adeguatamente organizzate come giardini in cui le anime dei bambini vengono coltivate e nutrite. I giardinieri dovrebbero essere ben selezionati e collaborare con genitori e collettività”. Per Yogananda, la parte dell’interrogazione socratica è sostituito dalla meditazione: “La meditazione sta risvegliando il ricordo del tuo vero Sé e ti sta facendo dimenticare ciò che immagini di essere”. In altre parole, come il ragazzo schiavo, dobbiamo prima dimenticare ciò che pensavamo di sapere in modo da poter risvegliare il ricordo del nostro vero Sé.

Anche nella tradizione yogica, la conoscenza del Sé o della realizzazione del Sé è collegata al ricordo e alla natura immortale dell’anima. La parola sanscrita “smriti”, che significa memoria o ricordo, viene definita da Patanjali come un altro vritti (vortice di energia creato in questa o in vite precedenti), che deve essere neutralizzato o calmato dalla pratica dello yoga per poter raggiungere l’unione con il vero Sé. Il vero Sé (l’anima immortale) è già divino, quindi la conoscenza del Sé o della realizzazione del Sé significa ricordare, ad un altro livello, chi e cosa siamo veramente.

È interessante notare che nella mitologia indù, Smriti è il nome della figlia del Dharma, il che può essere interpretato nel senso che, eseguendo il nostro dharma (dovere legittimo) in questa vita, diamo vita ed esprimiamo il nostro vero Sé. Dato che siamo essenzialmente la Verità, riconosciamo la Verità quando siamo esposti a essa. Ma riconoscere e ricordare non equivale a divenire e a esprimerla. Ciò richiede sforzo e forza di volontà, sotto la guida di un insegnante (un Maestro) e, soprattutto, richiede la grazia di Dio, che il nostro sforzo attira.

Tutti gli insegnanti illuminati ci dicono che la chiamata suprema di ogni essere umano è aspirare alla conoscenza del Sé. Tutte le altre forme di conoscenza sono secondarie. Allo stesso modo, un’antica massima greca afferma che il saggio non è colui che sa molto, ma colui che sa quel che deve sapere. E ciò che dobbiamo sapere è il nostro vero Sé. E per questo ci vogliono più di alcuni anni di scuola. La nostra scuola, come dice Yogananda, continua per tutta la vita. Anzi per molte, molte vite.


Original text in English

Education as Self-Knowledge

by Sanjaya David Connolly

 “All of us, before God, are but children. Life itself is a great school, and our lessons in it won’t end until we’ve realized who we really are, as children of the Infinite” – Paramhansa Yogananda

The two different Latin roots of the word “education” possibly account for the two very different ways in which education has traditionally been regarded. The one root is the Latin verb educare (past participle educatus) meaning “to train or to mould”; the other is the Latin verb educere (past participle eductus) meaning “to lead or draw out”.

The concept and practice of education which has generally prevailed has been to see it as the training or moulding of the pupil in accordance with the prevailing educational, moral and social customs and norms. It is based on the view that the human mind at birth is a “tabula rasa”, a blank slate, and that everything we eventually know (and become) is the result of what is recorded on that slate. Consequently, the teacher (educator) is the one who has “knowledge” and who imparts this knowledge to the pupils (educated), who record it (or not) on the blank slate of their minds. Thus, the “good” pupil is the one who memorizes what has been “taught” and conforms with the prevailing norms. On the contrary, pupils less inclined to rote learning and with more creative or non-conformist ideas are often seen as “weak”. Nevertheless, other concepts and practices, based on the idea of education as a leading or drawing out of the pupil’s innate knowledge and individual soul qualities, have always been expounded by more enlightened teachers.

In the famous experiment with the slave boy in Plato’s Meno, Socrates sets out to prove his claim that all learning is actually recollection of truths already innately known (a claim that Socrates connects to the idea of reincarnation and the immortality of the soul). Whether the experiment in geometry with the slave actually offers proof of this is not so important. More important is that it offers a different concept of education and educational method. The Socratic method of questioning first causes consternation and perplexity in the “pupil” by making him see that what he thought he knew, based solely on inculcated belief or opinion (traditional teaching), does not stand up to a deeper examination (elenchus). Then by further questioning, Socrates leads the boy to a recognition and true understanding of the geometrical concept. According to Socrates, this proves that the boy already had this knowledge within him; the questions he was asked simply “stirred it up”, making it easier for him to recollect it. He argues, further, that since the boy didn’t acquire such knowledge in this life, he must have acquired it at some earlier time; in fact, Socrates says, he must have always known it, which indicates that the soul is immortal. Consequently, Socrates refers to himself not as a teacher, but as a “midwife” who “delivers” the pupil of his latent knowledge.

The importance of the teacher’s role was also underlined by Paramhansa Yogananda, who likens the teacher to a gardener and the school to a garden in which each infant plant is individually nurtured until it grows and flowers. He says: “I consider properly organized schools as gardens where infant souls are grown and nurtured. The gardeners should be well-selected and cooperated with by parents and the public.” [“Considero le scuole adeguatemente organizzate come dei giardini in cui le anime dei bambini sono coltivate e nutrite. I giardinieri dovrebbero essere ben selezionati e dovrebbero ricevere la collaborazione dei genitori e della collettività.”] For Yogananda, the role of Socratic questioning is replaced by meditation: “Meditation is awakening the memory of your true Self and forgetting what you imagine yourself to be”. In other words, like the slave boy, we have first to forget what we thought we knew so that the memory of our true Self can be awakened.

In the Yogic tradition, too, knowledge of Self or Self-realization is connected with remembering and with the soul’s immortal nature. The Sanskrit word “smriti”, meaning memory or remembering, is referred to by Patanjali as another vritti (vortex of energy created in this or previous lives), which has to be neutralized or stilled by the practice of yoga in order that we may achieve union with the true Self. The true Self (immortal soul) is already divine, so knowledge of Self or Self-realization means remembering, on another level, who and what we truly are.

It is noteworthy that in Hindu mythology, Smriti is the name of the daughter of Dharma, which can be interpreted to mean that by performing our dharma (rightful duty) in this life, we give birth to and express our true Self. Given that we are in essence Truth, we recognize the Truth when we are exposed to it. But recognizing and remembering is not the same as becoming and expressing it. This requires effort and will-power, under the guidance of a teacher (master) and, above all, it requires the grace of God, which our effort attracts.

All enlightened teachers tell us that the supreme calling of every human being is to aspire to self-knowledge . All other forms of knowledge are secondary. Similarly, an ancient Greek maxim says that the wise man is not the one who knows much but the one who knows what he needs to know. And what we need to know is our true Self. It takes more than a few early years of schooling. Our schooling , as Yogananda says, continues throughout our lifetime. Indeed throughout many, many lifetimes.

 

 

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